Storia della Borsa, la rubrica curata da Fabrizio Fiorani, prosegue oggi con una puntata speciale: si esce da vicende strettamente legate alla borsa ed al trading per parlare dell’economia italiana. Gioie e (tanti) dolori, con una serie di problematiche, spesso decennali, che frenano la crescita economica dell’Italia.
La crisi economica italiana: una lunga storia…
Sono un “boomer” che è cresciuto professionalmente nel mondo della finanza ed ha vissuto sulla propria pelle le varie fasi della crescita e della crisi dell’economia italiana. Figlio dell’Italia in pieno sviluppo ho ricordi vividi di quegli anni. Forse la mia generazione è quella che più ha percepito i cambiamenti sociali e tecnologici degli ultimi 50 anni. L’esperienza sul campo mi ha fatto maturare ferme convinzioni sulle origini della crisi economica del nostro Paese che cercherò di descrivere.
Mi presento, ho 62 anni, i miei genitori sono di origini marchigiane ed emigrati in Francia per lavoro dove sono nato. Nel 1964 ci siamo trasferiti a Milano anche se io ho vissuto la seconda infanzia con i miei nonni in un piccolo paesino nell’entroterra marchigiano.
A 6 anni, con l’inizio delle scuole, sono rientrato stabilmente a Milano dove ho sempre abitato ed iniziato a lavorare in ambito finanziario nel 1983.
Il “miracolo economico italiano”

Partirei dal cosiddetto “miracolo economico Italiano” dei primi anni 50/60. Usciti devastati dalla seconda guerra mondiale grazie alla nostra grande capacità artigianale, manodopera a basso costo, aiuti finanziari ricevuti dall’America (piano Marshall) e all’adesione alla Comunità economica europea (Roma 1957), il nostro Paese conosce un vero e proprio boom economico.
Lo Stato vara un imponente piano di opere pubbliche per ricostruire l’Italia, nascono rapidamente fabbriche in tutto il centro nord dove si raggiunge la piena occupazione, si registrano notevoli flussi migratori dal sud al nord, nasce l’industria delle vacanze e tanto altro. Attraverso i racconti dei miei genitori ed avendo vissuto da piccolissimo in una realtà dedita all’agricoltura ed alla pastorizia ho meravigliosi ricordi di quel periodo. I primi elettrodomestici, la Vespa del nonno, la Fiat 500 del papà, le gite al mare ed in montagna mi hanno fatto assaporare quell’atmosfera magica.
Negli anni 50/60 l’Italia è stata uno dei Paesi con la maggiore crescita economica ed è entrata a far parte degli Stati più industrializzati. Purtroppo da quel momento qualcosa deve essere “andato storto” e quei livelli non sono stati più raggiunti.
La crisi petrolifera del 1973
Un fatto esogeno che ha imposto una decisa svolta è stata la crisi petrolifera del 1973 che ha provocato una grave recessione a livello mondiale. Il fabbisogno energetico italiano dipendeva al 75% dalle importazioni di petrolio e l’aumento dei costi della materia prima ha avuto un forte impatto sulle spese di produzione delle nostre imprese. Al fine di recuperare margini, molti imprenditori scelgono di appaltare parte della produzione ad aziende più piccole. Il processo di industrializzazione che era ancora giovane e vulnerabile subisce così un duro colpo. Si passa da un modello di produzione industriale concentrato ad un modello frammentato con una serie di conseguenze negative che si manifesteranno, come vedremo, anche nell’era della “globalizzazione”. Le piccole imprese per accaparrarsi le commesse, spesso sono costrette a ricorrere all’evasione fiscale ed al lavoro “in nero”. L’economia sommersa, con i connessi costi sociali e mancati introiti statali, contribuisce ad aggravare il disavanzo pubblico.
Circolo vizioso: “inflazione, scala mobile, inflazione”
In quel periodo e negli anni a venire le nostre imprese si sono inoltre trovate di fronte un sindacato forte e meccanismi di rivalutazione automatica delle retribuzioni dei lavoratori (accordo Agnelli-Lama sul punto unico di contingenza del 1975). Si è instaurato un circolo vizioso, con l’inflazione che, attraverso la scala mobile, faceva lievitare i salari che a loro volta facevano salire l’inflazione.
Un aumento dei costi delle materie prime e della manodopera superiore a quella dei concorrenti esteri ha provocato una perdita di competitività per le nostre imprese. Scaricare gli aumenti sui prodotti tendeva a ridurre le vendite (sia verso l’interno che soprattutto verso l’estero), non farlo significava contrarre i margini di profitto e l’autofinanziamento. L’inflazione inoltre bruciava parte dei risparmi e del potere d’acquisto degli stipendi con conseguenze negative sui consumi interni. Infine l’innalzamento dei tassi di interesse rendeva più onerosi i finanziamenti sia delle imprese che delle persone fisiche scoraggiando ulteriormente gli investimenti.
La crisi petrolifera del 1973
Tornando alla crisi energetica del 1973, l’Italia da una parte cercò di comprimere i consumi di energia attraverso misure di austerity fra le quali ho ancora presente il blocco totale del traffico pubblico e privato la domenica e successivamente l’introduzione delle “targhe alterne”. Dall’altra il nostro Paese nel 1975, col suo primo Piano Energetico Nazionale, decise di costruire nuove centrali nucleari. Tuttavia l’esito del referendum del 1987 decretò di fatto la fine del nucleare in Italia.

Credo che indire quel referendum sia stato un errore. Il popolo spesso non ha le competenze per assumere certe decisioni strategiche che spettano ai politici eventualmente supportati da pareri tecnici.
Riporto le parole di mio padre riguardo ai tempi della costruzione dell’Autostrada del Sole (1956-1964): “fra amici spesso discutevamo sui terreni ed i raccolti che sarebbero andati distrutti per permettere la realizzazione di quell’opera non necessaria”. Fortunatamente non si richiese una consultazione elettorale, l’opera fu realizzata, diventò un simbolo di efficienza e permise un notevole impulso alla motorizzazione sia nell’industria che nel turismo.
Non possedendo grandi giacimenti di idrocarburi ed avendo rinunciato al nucleare non restava che cercare altre fonti ma, a parte l’idroelettrico, erano tecnologie nuove, con alti costi di installazione e tempi lunghissimi per rientrare dall’investimento. Di fatto ancora oggi l’Italia importa circa i 3/4 dell’energia dall’estero, i costi sono fra i più alti in Europa e la competitività delle nostre imprese è penalizzata. Sarà indispensabile installare nuova capacità energetica ripensando al nucleare (reattori di ultima generazione capaci di produrre energia pulita e in grande quantità) e puntando su fonti rinnovabili (energia solare, eolica, idroelettrica, geotermica, maremotrice e quella derivata dalle biomasse). La politica dovrà avere un ruolo chiave nel processo di transizione energetica attraverso incentivi e permettendo di superare lungaggini e impedimenti burocratici che rappresentano uno dei maggiori ostacoli agli investimenti.
Se lato costi energetici non andò bene maggiori risultati si raggiunsero, dopo circa un decennio, lato inflazione. A depotenziare la devastante spirale inflazionistica descritta in precedenza, sono intervenuti gli accordi Governo, Imprese, Sindacati del 22/01/83 (decreto Scotti) e del 14/02/84 (decreto di San Valentino) che hanno rispettivamente posto fine allo scontro sociale sindacati / industria sui contratti integrativi ed introdotto un taglio di 4 scatti alla scala mobile. Riguardo a quest’ultima nel 1985 la CGL, che non aveva acconsentito all’accordo, propose un referendum abrogativo dello stesso che inaspettatamente non sortì l’effetto da lei sperato. Occorrerà comunque attendere il 31 luglio 1992 per vedere l’abolizione definitiva della scala mobile da parte del Governo.
Crescita del debito pubblico
Ma un altro “bubbone” stava montando: la crescita del debito pubblico. Dagli inizi degli anni 70 il rapporto Debito/PIL era iniziato a salire sia per effetto degli stimoli all’economia necessari a contrastare la recessione ma anche per supportare società decotte e misure volte unicamente a guadagnare consenso elettorale.
Un esempio eclatante le baby pensioni. Introdotte nel 1973 consentivano nell’impiego pubblico di uscire dal mondo del lavoro dopo appena 19 anni sei mesi e un giorno per gli uomini e 14 anni 6 mesi e un giorno per le donne sposate con figli. Nonostante l’evidente squilibrio che si sarebbe determinato tra entrate ed uscite nelle casse dell’INPS, si riuscì solo nel 1995 a porre fine a quel privilegio che ancora oggi produce pesanti effetti. Dall’ultimo rapporto “Il Bilancio del sistema previdenziale italiano”, emerge che quasi 400.000 persone hanno iniziato, in media, a percepire l’assegno di previdenza a poco più di 39 anni e ricevono la pensione da oltre quarant’anni.
Un altro esempio che in passato mi ha lasciato perplesso riguardava le modalità di erogazione dei contributi statali per finanziare alcune opere. I fondi venivano assegnati non in base alla bontà del progetto ma dell’ordine cronologico della presentazione delle domande. Chi aveva informazioni privilegiate sui documenti richiesti dal bando del concorso risultava favorito a discapito di altri che avevano presentato progetti magari più validi. Come conseguenza, opere antieconomiche sono spesso rimaste incompiute o finite per essere inutilizzate.
Capire la crisi economica Italiana: il debito
Ci sarebbero un’infinità di altri esempi di “debito cattivo” che, non producendo sviluppo, si è riflesso nell’aumento del rapporto Debito/PIL gettando le basi per la crisi del debito pubblico.
Dal 1973 al 1981 la crescita del rapporto Debito/PIL è comunque ancora modesta (passa dal 55% al 60%). La Banca d’Italia dal 1975 ha l’obbligo di comprare i titoli di Stato non collocati sul mercato primario contribuendo a mantenere interessi nominali relativamente contenuti e tassi reali negativi. Per finanziare gli acquisti l’Istituto ricorre all’emissione di moneta che ha come controindicazioni un aumento dell’inflazione ed un indebolimento della Lira.
Nel 1981 però il divorzio consensuale fra Bankitalia e Tesoro costringe quest’ultimo a finanziarsi ai tassi di interesse richiesti dal mercato che crescono rapidamente. Si passa da tassi reali negativi a positivi e gli effetti “benefici” dell’inflazione sul debito scompaiono. Cresce la spesa per interessi ed il rapporto Debito/PIL sale dal 60% del 1981 al 122% del 1994.

Rendimenti appetibili superiori anche al 20% annuo, unitamente ad una scarsa cultura finanziaria, hanno anche avuto come effetto collaterale quello di convogliare il risparmio degli italiani verso l’investimento obbligazionario a discapito di quello azionario. Come conseguenza le imprese sono state costrette a ricorrere al più costoso finanziamento bancario. La problematicità di reperire capitali di rischio ha inoltre comportato una minor patrimonializzazione delle aziende e la difficoltà ad effettuare investimenti remunerativi.
Una scelta miope dei nostri politici intenti ad accrescere i consensi nel breve periodo scaricando sul futuro i problemi derivanti. Nel novembre 2024 il debito pubblico italiano ha superato i 3.000 miliardi (135,8% del PIL), oltre 50.000 euro a cittadino italiano, neonati compresi. Un fardello enorme che grava sulle casse dello Stato con interessi per circa 90 miliardi annui (4,2% del PIL).
Un Paese con un debito elevato tende a crescere meno nel medio periodo perché i tassi di interesse risultano più alti, lo Stato ha minori risorse per sostenere l’economia, aumenta il grado di incertezza e questo scoraggia gli investimenti. Siamo tutti consapevoli che il debito pubblico non verrà mai ripagato ma quantomeno occorrerebbe cercare di ridurre il rapporto Debito/PIL attuando riforme strutturali volte a innalzare il tasso di crescita del PIL attraverso maggior produttività e competitività.
Instabilità politica
L’instabilità politica è stato un altro fattore che ci ha penalizzato. Dal 1946 ad oggi, in Italia si sono alternati ben 68 Governi. Nonostante la durata prevista dalla Costituzione per la legislatura che è di 5 anni, in media, i Governi italiani, sono rimasti in carica meno di un anno e due mesi. Se si esclude inoltre il periodo fra le dimissioni del Governo (che rimane in carica per svolgere solo l’ordinaria amministrazione) e l’insediamento del successivo, l’azione di Governo effettiva scende a poco più di un anno.
Un esecutivo che teme elezioni anticipate difficilmente intraprende riforme strutturali che solitamente richiedono sacrifici a breve e producono effetti positivi nel medio periodo. Inoltre per sostenere il Governo è stato spesso necessario ricorrere a coalizioni con partiti anche minori ma che con il 2-3% erano in grado di imporre le loro condizioni. Ricordo negli anni 80 il Pentapartito formato da ben cinque partiti (DC, PSI, PRI, PLI, PSDI) senza contare le “correnti” che componevano alcuni di questi ed in particolare quello della Democrazia Cristiana. Le difficoltà nel trovare una sintesi condivisa, la diversa composizione fra Deputati e Senatori e la necessità di approvare una legge nel medesimo testo sia alla Camera che al Senato non hanno agevolato rapidità ed incisività dei provvedimenti.
Governi di breve durata sono generalmente impossibilitati a costruire una direzione di marcia per il proprio Paese ed a rafforzare le relazioni con altri Stati per incidere sugli scenari internazionali. Occorre quindi apportare modifiche alla legge elettorale che agevolino la formazione di maggioranze parlamentari più stabili.
Mancanza di meritocrazia
In Italia un’altra questione è stata la mancata valorizzazione del merito in tutti gli ambiti della società. Dall’ideologia del 6 politico del 1968 a quella recente dell’uno vale uno non è cambiato molto. La preparazione universitaria è “debole” per mantenere livelli omogenei tra gli atenei, nelle assunzioni spesso contano le raccomandazioni e le carriere solitamente avvengono per anzianità.
Ai vertici delle amministrazioni pubbliche o delle società statali le nomine sono dettate da “affiliazioni politiche” con i vari Direttori che, restando in carica fino alla scadenza del mandato, possono trovarsi in contrasto in caso di variazione della maggioranza di Governo. Tali discorsi valgono anche per moltissime piccole imprese che collocano i familiari non solo nei board ma anche nelle posizioni esecutive. Genitori, figli, fratelli e cugini con personalità ed obiettivi diversi portano spesso a tensioni e conflitti che penalizzano l’efficienza operativa e la sostenibilità a lungo termine dell’impresa.
Anche a livello salariale conta di più la contrattazione nazionale piuttosto di quella aziendale. I differenziali salariali rispetto a quelli nazionali sono modesti e non correlati con la produttività delle imprese. Un’azienda di successo che scommette su nuovi investimenti e che fa innovazione, dovrebbe avere la possibilità di far partecipare agli utili i propri lavoratori. Un Magistrato che svolge bene il suo lavoro in tempi ragionevoli dovrebbe ricevere una ricompensa per il suo impegno. Prevale invece l’appiattimento generale e quindi la mancanza di stimoli al miglioramento.
Crisi economica italiana: la questione demografica
Un altro gravissimo problema per l’economia italiana è quello della crisi demografica. Da tempo assistiamo ad una tendenza al calo della natalità. Il tasso di fecondità (numero medio di figli per donna in età feconda) che fino alla fine degli anni 60 era stabilmente sopra il 2,5, dal 1970 ha iniziato una inesorabile tendenza alla discesa. Già nel 1977 si è portato sotto la soglia di 2 che rappresenta il livello “spartiacque” per la continuità demografica. Nel 2023 si è attestato a 1,20 che è un dato tra i più bassi al mondo, al di sotto della media europea e, per fare un raffronto con un Paese a noi vicino, nettamente inferiore a quello della Francia che nel 2023 era di 1,69. Si è registrata anche una tendenza costante all’innalzamento dell’età media delle madri al parto che si è portata da 27,47 del 1980 a 32,49 del 2023. Se dovesse rimanere questa bassa fertilità, con il passare del tempo si ridurrà la popolazione in età riproduttiva e questo influirà negativamente sulle nascite.
Molte le cause che inducono le coppie a non avere figli o a posticipare la data del concepimento: maggiore partecipazione al lavoro delle donne, complessità nel conciliare carriera e maternità, aumento del costo della vita, difficoltà di accesso a scuole materne pubbliche, costi elevati per l’istruzione, prolungamento della vita scolastica, entrata ritardata nel mondo del lavoro, precarietà occupazionale, stipendi bassi, difficoltà sul piano residenziale ecc. Oltretutto si sentono sempre più spesso coppie con problemi di fertilità dovuti a diversi fattori sia fisici che psicologici che ritardano o impediscono la messa al mondo di un figlio.
Immigrazione: un freno al calo demografico
L’immigrazione di cittadini stranieri ha, al momento, evitato un crollo demografico. Comunque la popolazione residente in Italia dal massimo di 60,8 milioni raggiunti nel 2014 ha iniziato un declino continuo che al primo gennaio 2024 l’ha riportata a 58,99 milioni. Di questi la popolazione residente di cittadinanza straniera era di 5,31 milioni (9%) e mantenere l’equilibrio non è comunque facile.
Una bassa natalità unitamente all’aumento delle aspettative di vita, si sono ripercossi in un invecchiamento della popolazione. Nel 1951 il rapporto fra bambini (sotto i 5 anni) ed anziani (sopra 65 anni) era di 1 a 1 mentre nel 2011, per ogni bambino c’erano 3,8 anziani e addirittura 5,8 nel 2023. Al 1° gennaio 2023, l’età media della popolazione italiana era di 48,4 anni, la più alta in assoluto dei Paesi della UE che registrava una media di 44,5 anni. Nel 2000 l’età media era di 40,1 anni quindi, in poco più di due decenni, si è innalzata di 8,3 anni contro ad esempio i 5,6 anni (da 39,8 a 45,4) della Germania.
Ad aggravare la situazione vi è anche la scarsa attrattività dell’Italia per i giovani. Secondo alcuni studi, per ogni giovane che arriva in Italia dai Paesi avanzati, otto italiani vanno all’estero. Dal 2011 al 2023, circa 550.000 ragazzi italiani tra i 18 e 34 anni sono emigrati. Un ulteriore danno economico rilevante è legato ai costi sopportati dallo Stato per l’istruzione degli studenti che poi vanno ad alimentare le competenze di altri Paesi impoverendo il nostro.
Una popolazione “anziana” rallenta la crescita economica: meno persone lavorano e la loro produttività è inferiore in quanto dotate di minor energia e fantasia e poco incentivate ad accumulare risparmi per garantire un futuro ai propri figli. Altro macigno è rappresentato dal peso crescente sui conti pubblici della spesa per pensioni e sanità.
La soluzione a questo grave problema sarebbe quella di destinare maggiori risorse a: sostegno alle famiglie con prole numerosa, agevolazioni lavorative per assistere i figli, servizi per la primissima infanzia, politiche attive per il lavoro ecc. Un’impresa di difficile attuazione date le scarse disponibilità ma necessaria in quanto la competizione fra i Paesi che si trovano in questa situazione, sarà nell’attrarre giovani qualificati per supportare il proprio sviluppo economico.
Divario di crescita economica fra meridione e settentrione
Un altro tema annoso è il minore sviluppo economico del sud rispetto a quello del nord che abbassa in modo considerevole il reddito medio pro capite. Sulle motivazioni dell’arretratezza del meridione ci sono diverse opinioni che fanno risalire l’inizio di questa tendenza intorno alla metà del 1800.
Territorio impervio ed infestato dalla malaria, reti stradali e ferroviarie assenti hanno condizionato l’agricoltura che era la principale attività del mezzogiorno. La mancanza di una visione imprenditoriale, anche a causa della presenza di grandi latifondisti, ha inoltre ostacolato al sud la formazione di una classe borghese moderna ed aperta all’innovazione.

Si arriva alle guerre mondiali . Qui l’industria del nord può contare sulle commesse belliche (armi, munizioni ecc.) e su quelle per la ricostruzione mentre il richiamo alla guerra priva il sud dei contadini dediti all’agricoltura.
Lo scarso peso politico della classe latifondista meridionale rispetto a quella industriale del nord ed il maggior ritorno economico atteso dagli investimenti nel settentrione si fanno sentire anche nel periodo immediatamente successivo alla fine della seconda guerra mondiale.
Parte dei finanziamenti del piano Marshall destinati alla costruzione di nuove industrie nel sud vengono dirottati nell’apparato industriale del nord. Nel meridione le difficili condizioni economiche con tassi di disoccupazione elevati favoriscono l’insorgere di bande che si danno al brigantaggio.
Nel 1950 il divario tra il reddito pro capite del sud ed il resto del Paese tocca il suo punto di massimo. Viene perciò creata la Cassa del Mezzogiorno al fine di realizzare opere significative quali strutture idriche, viarie e volte allo sviluppo industriale. Tuttavia, con il passare del tempo, episodi di corruzione, infiltrazioni mafiose e mala gestione del denaro pubblico, fanno perdere efficacia alla qualità degli investimenti o addirittura le opere pubbliche non vengono completate. Il differenziale fra il reddito pro capite nord/sud mostra infatti una decisa tendenza alla riduzione fra il 1950 ed il 1970 salvo poi tornare ad ampliarsi e perdere buona parte del terreno recuperato.
Al parziale fallimento dello Stato si contrappone invece lo sviluppo della mafia favorita da pratiche clientelari che le assicurano una presa salda sul territorio.
Credo quindi che l’infiltrazione della malavita organizzata nella vita politica ed economica del mezzogiorno sia stata e continui ad essere il motivo per il quale molti imprenditori non investono su tali aree o se lo fanno devono necessariamente scendere a patti con esponenti della mafia. Il tarlo è talmente ramificato che si estende anche alle attività minori. Ricordo a Palermo un tabaccaio costretto a vivere costantemente armato nel proprio negozio dopo le numerose rapine e minacce personali subite dal “racket del pizzo”.
La criminalità organizzata purtroppo si è diffusa al centro-nord Italia, in Europa ed in tutto il mondo. Un fenomeno di così ampio respiro potrà essere combattuto solo a 360°. Partendo dal basso attraverso uno sforzo collettivo che incida sulle nuove generazioni aiutandole ad avere strumenti di consapevolezza del problema, a livello superiore tagliando le relazioni con professionisti ed istituzioni e dall’alto con accordi fra Stati.
Burocrazia eccessiva
Un aspetto che influisce invece negativamente sulla crescita del nostro intero Paese è sicuramente il livello eccessivo di burocrazia. Quest’ultima infatti, oltre a far lievitare i costi delle imprese che devono dedicare personale a svolgere queste attività a discapito di quelle produttive, allunga i tempi di attesa per ottenere eventuali documenti o permessi scoraggiando gli investimenti anche esteri in Italia.
Tuttavia alcune regole ben dettagliate mi rendo conto siano necessarie in quanto la nota creatività del nostro popolo non sempre viene utilizzata a fin di bene. Due recenti esempi mi hanno colpito:
- Siamo nel 2020 in emergenza COVID. Viene emanato un decreto di chiusura dei locali della movida alle ore 24 (senza stabilire l’orario di apertura). Alcuni bar chiudono a mezzanotte e riaprono dopo dieci minuti. Incredibile ma vero, siamo in Italia d’altronde.
- 2021 – SuperCashback di 1.500 euro ai primi 100.000 partecipanti al concorso che effettueranno il numero maggiore di transazioni in un semestre con pagamenti elettronici (senza fissare un minimo a transazione). Molte persone effettuano migliaia di rifornimenti di carburante per pochi centesimi cadauno ai distributori. Il tutto per la disperazione dei benzinai che si vedono addebitare le commissioni bancarie.
Credo quindi sia necessario un processo di riduzione della burocrazia accompagnato da un’opera di educazione nelle scuole e nelle famiglie volta a diffondere già nei ragazzi la cultura della legalità, la conoscenza dei valori costituzionali. Ciò affinchè possano diventare cittadini consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri, capaci di comportarsi con responsabilità nei confronti della comunità.
Corruzione
Altro tasto dolente riguarda la corruzione. Senza toccare il caso “mani pulite” o il caso “Enimont” (passato alla storia come “la madre di tutte le tangenti”), credo che questo tarlo in passato sia stato talmente ramificato da raggiungere anche le piccole attività.
Un aneddoto del 1983. Essendo nato in Francia mi son dovuto recate a Roma per richiedere il certificato penale necessario ad accedere alla Borsa Valori di Milano. L’addetto allo sportello mi ha però comunicato che il “cicerone” (francobollo particolare) da apporre sul documento era terminato e non poteva rilasciare il documento. Fortunatamente mi aveva accompagnato un mio zio romano che ha fatto immediatamente presente all’impiegato la nostra disponibilità a “pagà er disturbo”. Nonostante il mio imbarazzato in un attimo la banconota che avevo in mano è stata sostituita dal documento richiesto con tanto di cicerone.
La corruzione ha impatti negativi sull’economia in quanto vengono favorite le imprese in grado di corrompere per ottenere appalti che poi magari vengono realizzati in modo inefficiente. Oltretutto per cercare di arginare tale fenomeno si richiedono maggiori controlli e moduli da compilare che tendono a rendere più costose le opere ed a ritardarne la realizzazione.
L’indice di Percezione della Corruzione (CPI) di Transparency International che misura la percezione della corruzione nel settore pubblico e nella politica ha visto nel 2023 l’Italia classificarsi al 42° posto su una classifica di 180 Paesi in tutto il mondo. Sebbene il nostro Paese si trovi ancora nella parte bassa della classifica recentemente ha recuperato qualche posizione. In una scala di valori che va da 0 (corruzione massima) a 100 (minima), il punteggio dell’Italia nel 2023 è stato di 56, in miglioramento di 3 punti rispetto al 2020 e di 14 punti rispetto al 2012. La nota positiva è che ci stiamo lentamente avvicinando alla media dei Paesi dell’Europa occidentale che nel 2023 è stata di 65 punti.
Lentezza della giustizia
La giustizia civile italiana è fra le più lente d’Europa. Come prima considerazione si rileva che in Italia vengono introdotte una quantità di contenziosi civili estremamente elevata rispetto ad altri importanti Paesi europei. Fra le cause si può pensare ad una maggiore litigiosità degli italiani meno inclini a trovare un accordo extragiudiziale alle loro contese.

Un secondo motivo riguarda l’incertezza del diritto. Molte leggi non sono scritte in maniera chiara e si prestano all’interpretazione. Inoltre il giudice di primo e secondo grado può discostarsi dalle linee guida della Cassazione purché argomenti adeguatamente le sue scelte.
Altro elemento il numero eccessivo di avvocati iscritti all’Albo in Italia che potrebbero essere incentivati, per lavorare, ad introdurre cause anche quando non c’è possibilità di vittoria. Infine l’organico della Magistratura risulta sottodimensionato: 11,86 Magistrati ogni 100.000 abitanti rispetto ad una media di 22,2 delle altre nazioni indipendenti europee. Tutto ciò si traduce in un massiccio numero di cause pendenti che, avendo difficoltà ad essere smaltite, determina un ingolfamento della giustizia e la lentezza dei processi civili.
Questo fenomeno impatta negativamente sull’economia perché scoraggia gli investimenti, aumenta i costi legali ed amministrativi, sfavorisce lo sviluppo del mercato del credito, ritarda l’esecuzione dei lavori ecc. Uno studio del Cer-Eures del 2017 ha evidenziato che se i tempi della giustizia italiana fossero analoghi a quelli tedeschi, avremmo un aumento aggiuntivo di quasi 2,5 punti di PIL.
Convergenza ed entrata nell’Euro
Una scelta necessaria ma sofferta è stata quella di entrare a far parte dell’Euro. Al fine di indirizzare l’entità dei nostri alti rapporti di deficit di bilancio e di debito pubblico sul PIL verso i parametri richiesti, sono state attuate finanziarie “lacrime e sangue” che hanno pesato su occupazione e crescita. D’altro canto la riduzione dell’inflazione e dei tassi di interesse “indorava” la pillola amara.
Purtroppo dopo l’ammissione dell’Italia nell’Euro (avvenuta ad un cambio di 1.936,27) non sono state attuate politiche volte ad un recupero di competitività ma si è proseguito con le politiche inerziali inflattive. In particolare è mancato un controllo sui prezzi, tanto che, ai tempi si sentiva spesso dire: “tutto quello che prima costava 10.000 Lire ora costa 10 Euro (quasi 20.000 Lire)”. Maggiori costi di produzione hanno portato ad una perdita di competitività dei nostri prodotti nei confronti di quelli degli altri Paesi aderenti con riflessi negativi su esportazioni e crescita economica.
In passato, per recuperare competitività, si ricorreva alla svalutazione della Lira. Le imprese tornavano a “respirare” ma gli italiani con la liretta in tasca diventavano sempre più poveri nei confronti degli altri cittadini esteri. Già nel 1973 Celentano cantava “Svalutation” che, oltre a citare diverse problematiche di allora, poneva l’accento sull’inflazione e sulla svalutazione della nostra moneta.
Ricordo un amico marchigiano che lavorava in una fabbrica tessile che esportava principalmente verso la Germania. Nell’agosto del 1992 era stato messo in cassa integrazione ed era preoccupato per il suo posto di lavoro. L’imprenditore gli aveva spiegato che ogni Marco che riceveva dai clienti tedeschi valeva circa 760 Lire ed a quel cambio non era più in grado di coprire i costi.
Lo incontrai nuovamente dopo un paio di mesi, il Marco valeva intorno a 1.000 Lire e il suo capo gli aveva detto che sarebbe tornato a lavorare. Si concesse una vacanza per festeggiare ma, a differenza degli anni precedenti, non andò all’estero in quanto il viaggio era diventato troppo costoso. Andò peggio ad un altro amico di Milano. Qualche tempo prima aveva contratto un mutuo in ECU in quanto i tassi di interesse erano molto convenienti rispetto a quelli stipulati in Lire. Dopo la svalutazione della nostra moneta nel settembre del 1992 aveva però registrato una forte perdita in conto capitale ed era in difficoltà nel pagare la rata del mutuo.
Con l’adozione dell’Euro, non essendo più possibile ricorrere alla svalutazione (della Lira), l’unica strada percorribile per non perdere competitività è quella di puntare sul recupero di produttività e sull’innovazione di prodotto, strade più impegnative ma obbligate.
La globalizzazione
Il fenomeno della globalizzazione ha fatto emergere un’altra criticità per il nostro Paese che è stato da sempre caratterizzato da un sistema produttivo principalmente formato da piccole e medie imprese (PMI). “Piccolo è bello” si diceva ed in effetti lo spirito imprenditoriale e la creatività degli italiani, la rapidità nelle decisioni e la snellezza dei processi produttivi consentita dalle PMI, hanno rappresentato per decenni esempi di eccellenza nel mondo.

Con la mondializzazione dei mercati si è però verificata una forte correlazione fra dimensioni aziendali e produttività. Le imprese più grandi possono contare su economie di scala a livello produttivo, organizzativo, di conoscenza, di ricerca e tendono ad essere più produttive rispetto a quelle di dimensioni inferiori.
All’interno dei Paesi sviluppati l’Italia è quello con la più alta percentuale di micro e piccole imprese quindi, data la caratteristica di una bassa produttività di queste ultime rispetto alle grandi, risultiamo meno produttivi in confronto ad altri Paesi. Fra le motivazioni della mancata crescita dimensionale delle nostre aziende vi è la proprietà familiare. L’imprenditore ha difficoltà ad aprirsi a capitali esterni, per cui le società rimangono sottocapitalizzate e non riescono ad effettuare gli investimenti necessari a finanziare l’espansione. Altre motivazioni vanno ricercate nella bassa capacità dell’Italia di attrarre investimenti diretti esteri per i vari motivi descritti in precedenza.
Evasione fiscale
È nelle piccole/micro imprese e nei liberi professionisti che si annida oltretutto la piaga dell’evasione fiscale. Oltre all’ammanco per le casse dello Stato il rischio è che vengano favorite le aziende che pongono in essere pratiche di evasione fiscale a danno di imprese più capaci ma virtuose. Nel medio periodo ciò tende a generare un’economia meno efficiente.
Dal 2017 questo fenomeno in Italia è in calo costante e progressivo grazie all’importante recupero dell’IVA. Secondo l’ultima relazione pubblicata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze nel 2021 il cosiddetto tax gap (cioè la differenza tra il gettito fiscale e contributivo teorico e quello effettivamente incassato) era pari a 82,4 miliardi di euro (108,4 nel2017). Nell’evasione, la “parte del leone” la fanno ancora i lavoratori autonomi con oltre 29,6 miliardi (33,3 nel 2017) e un tax gap di circa il 67%, segue l’IVA con minori entrate valutate in circa 17,8 miliardi (in netta contrazione rispetto ai 35,6 del 2017). Nonostante detti importanti miglioramenti, con un tax gap nel 2021 del 10,8%, l’Italia rimane sopra la media europea che è del 5,3%.
Le misure introdotte per ridurre l’evasione stanno dando buoni risultati in termini di recupero di risorse finanziarie e sta cambiando anche la mentalità comune in merito a questo argomento. Fino a qualche tempo fa spesso sentivo definire l’evasore come una persona “in gamba”. Le giustificazioni erano una tassazione troppo elevata e che comunque se si fossero versate più tasse, lo Stato le avrebbe sperperate. Solo ultimamente l’evasione fiscale sta gradatamente assumendo un’accezione negativa e ci si rende conto che una riduzione della stessa potrebbe eventualmente consentire un abbattimento della pressione fiscale (“pagare tutti per pagare meno”).
Spesa pubblica
Un aspetto invece dove i risultati sono stati deludenti è quello sulla riduzione dell’enorme spesa statale. Da moltissimi anni il problema è considerato dai Governi e sono stati nominati anche Commissari straordinari alla “spending review” illustri come Enrico Bondi (Governo Monti) e Carlo Cottarelli (Governo Letta) solo per fare qualche nome. Purtroppo i risultati complessivamente non sono stati soddisfacenti anche per la mancanza di un adeguato supporto politico alle proposte effettuate. Abbiamo una spesa pubblica annuale intorno ai 1.000 miliardi e un’analisi approfondita delle uscite permetterebbe di tagliare sprechi e liberare risorse da utilizzare in maniera più proficua.
Turbolenze economiche
Chiaramente quando un Paese è strutturalmente debole tende ad essere più vulnerabile in caso di turbolenze economiche. La crisi del 2008 dei mutui subprime partita dagli Stati Uniti ha provocato una grave recessione mondiale. I Paesi per contrastarla hanno aumentato molto i deficit di bilancio cosa che noi, con un enorme stock di debito sulle spalle, abbiamo potuto fare solo in minor misura.
Per non parlare della speculazione che, se vede un focolaio, lo alimenta per trarre profitto dall’incendio che ne dovesse divampare. Un esempio eclatante è stata la crisi dei debiti sovrani del 2011. Facendo leva su alcuni Paesi accomunati da situazioni finanziarie non virtuose (i cosiddetti “PIIGS”: Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) gli speculatori puntarono sulla disgregazione dell’Europa e l’Italia passò momenti drammatici con lo spread che, nel novembre 2011, si avvicinò a 600 punti. Nonostante un Governo tecnico guidato da Mario Monti che assunse provvedimenti drastici per riequilibrare i nostri conti, lo spread, dopo un’iniziale discesa, tornò sui 500 punti. Solo il Governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi riuscì a porre fine all’attacco speculativo ed a salvare Italia ed Euro nell’estate del 2012 pronunciando le famose parole: “Whatever it takes” («Nei limiti del nostro mandato, la Banca Centrale Europea è pronta a fare qualsiasi cosa per salvare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza»).
Anche nella crisi del 2020 legata al COVID l’Italia ha sofferto più di altri Paesi e pure in questo caso l’Europa ha avuto un ruolo fondamentale nel salvataggio. Si è dovuto aumentare il deficit di bilancio ma gran parte del debito è stato contratto nei confronti della BCE (tecnicamente e legalmente della Banca d’Italia) evitando un eccessivo ricorso al mercato e quindi scongiurando speculazioni contro uno Stato ritenuto poco affidabile.
Ritardo tecnologico
Da dove nasce la crisi economica italiana? I problemi sono parecchi, ma possiamo dire che l’economia italiana è stata particolarmente colpita dalla concorrenza dei Paesi emergenti ed in particolare dalla Cina che dal 2001 è entrata nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). In soli due decenni la Cina è diventata il primo esportatore mondiale di beni e molte delle nostre aziende, che hanno cercato di competere sulla produzione di massa, sono state sconfitte.
Quelle che hanno puntato invece su prodotti di qualità hanno avuto maggiori chances anche se, molte aziende “top del Made in Italy”, sono state acquisite da holding finanziarie asiatiche o multinazionali straniere.
Il nostro Paese ha inoltre accumulato importanti ritardi nello sviluppo e nell’innovazione tecnologica rispetto alla media europea che, a sua volta, segue a distanza i grandi player come Cina e Stati Uniti. In un recente rapporto all’Unione Europea, l’economista Mario Draghi ha sottolineato che quest’ultima dipende dai Paesi stranieri per più dell’80% dei prodotti digitali, dei servizi, delle infrastrutture e della proprietà intellettuale. Tale percentuale è acuita soprattutto nei “chip” ma anche nell’intelligenza artificiale e nel cloud computing.
Una causa del ritardo dell’Italia sono i bassi investimenti effettuati in ricerca e sviluppo e nell’alta tecnologia. Si tratta di due settori che esercitano di fatto un ruolo limitato nel nostro Paese. La via maestra è ora quella di investire in ricerca e sviluppo ed avviare una transizione interna verso un’economia ad alto valore aggiunto.
Conclusioni
Le cause della crisi dell’economia italiana come abbiamo visto sono molteplici. Decisioni politiche dettate prevalentemente dal tornaconto personale, scelte imprenditoriali poco lungimiranti ed una certa negligenza degli italiani hanno da tempo portato l’Italia a “danzare pericolosamente sull’orlo del baratro”.
È veramente un peccato vedere il nostro meraviglioso Paese, con tutta la sua arte, la sua storia, le sue bellezze naturali, la sua imprenditorialità, il suo patrimonio enogastronomico un tempo invidiato da tutto il mondo in questa situazione. Qualche timido miglioramento si è recentemente notato ma non è abbastanza. È quindi indispensabile effettuare senza ulteriori indugi quelle riforme strutturali che sono state per troppo tempo rimandate.
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Un viaggio alla scoperta della “Storia della Borsa”: ecco la nuova puntata della rubrica curata da Fabrizio Fiorani. Qui di seguito i link per accedere alle precedenti puntate in questo avvincente viaggio fra trading e finanza!
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